Gli appassionati di egittologia sanno che le grandi collezioni europee si sono formate grazie all’apporto di personaggi come il console di Francia Bernardino Drovetti (1776-1852), la cui raccolta costituisce il nucleo principale del Museo Egizio di Torino, o Giovan Battista Belzoni (1778-1823), che lavorò per il console inglese Henry Salt e donò una discreta collezioni alla sua città natale: Padova.
Persone come loro formavano raccolte di antichità, anche molto consistenti, durante il soggiorno nel paese del Nilo, per poi donarle o più spesso rivenderle ai principali governi europei, che ne traevano grande prestigio.
L’unico triestino che rientra in questo quadro – pur non essendo un diplomatico ma un mercante di cavalli – fu Joseph (o Giuseppe, all’italiana) Passalacqua (1797-1965), il quale condusse scavi in Egitto all’inizio del XIX secolo che gli consentirono di raccogliere un considerevole insieme di antichità egizie, tra cui il contenuto di una tomba intatta da lui rinvenuta nel 1823. Tutta la sua collezione fù però venduta a Federico Guglielmo di Prussia e si trova ora a Berlino, del cui Museo Passalacqua rivestì la carica di direttore fino alla morte.
In altri casi, poi, sono state le grandi campagne di scavo del XX secolo (si pensi soltanto alla scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922 da parte di Howard Carter o agli scavi di salvataggio dei siti della Nubia durante i lavori per la costruzione della grande diga di Assuan negli anni ’60) ad arricchire e completare le collezioni dei vari Musei.
Nulla di tutto questo accade per Trieste. L’unico reperto di origine egiziana la cui provenienza da scavo è documentata è un bronzetto raffigurante la dea Iside seduta che allatta il figlio Horus: fu ritrovato non in Egitto, bensì nelle fondamenta di un edificio nel rione triestino di Gretta a pochi passi dalla cosiddetta “Stipe di Gretta” (un deposito di una ventina di piccole statuine in bronzo di epoca preromana e romana raffiguranti Ercole), nel 1904.
Parte dell’Impero austriaco fino alla Prima guerra mondiale, Trieste era una città a vocazione mercantile e agli occhi dei governanti non c’era motivo di abbellirla con importanti collezioni archeologiche, che erano destinate alla capitale. Gli eredi dell’Arciduca Ferdinando Massimiliano decisero infatti, alla sua morte, di non lasciare la sua collezione egizia di ben 1.930 oggetti al castello di Miramare, dove si trovava, ma di trasportarla a Vienna, costituendo così uno dei nuclei della raccolta di oggetti egizi del Kunsthistorisches Museum. Unico “relitto” di quella collezione rimasto a Trieste, la sfinge in granito rosa che ancora è murata alla testa del molo privato del castello.
L’arrivo in città di oggetti antichi provenienti dall’Egitto è legato invece alla rinascita del porto triestino a partira dal Settecento, soprattutto con l’umpulso dato dall’Imperatrice Maria Teresa. Grazie alle rotte commerciali che si aprirono in quel periodo, si stabilì un contatto duraturo con la terra del Nilo, in cui molti triestini si trasferirono per lavoro o nella speranza di fare fortuna.
E fu così che la collezione egizia prese forma: già nel 1874, nel primo anno dall’istituzione ufficiale del Museo (chiamato allora Museo d’Antichità), molti triestini donarono gli oggetti da loro acquistati.
Questi facevano parte di raccolte di “stranezze”, di piccoli oggetti che erano inizialmente esposti nelle case della borghesia triestina per destare la meraviglia dei propri ospiti ed amici, e che poi si pensò potessero contribuire ad aumentare il prestigio delle istituzioni cittadine, nonchè dei donatori stessi. In questo ambito è interessante ricordare come anche un giardiniere, Giovanni Ianesich, ed un meccanico, Giuseppe de Pollo, che avevano lavorato in diverse località d’Egitto, proposero al Museo di acquistare i loro piccoli “tesori” (rispettivamente nel 1874 e negli anni 1885 e 1887).
Come loro, altri triestino donarono o vendettero singoli oggetti o piccoli nuclei. Tra questi ve ne sono di illustri: il Barone Pasquale Revoltella (1795-1869), il quale raccolse bronzetti (risultati, in seguito al restauro, delle imitazioni ottocentesche), amuleti, scarabei e mummie animali per il Museo di Storia Naturale (all’epoca denominato Civico Museo Zoologico Ferdinando Massimiliano); Sir Richard Burton (1821-1890), celebre viaggiatore e traduttore de Le Mille e Una Notte, che donò una serie di dieci figure a carattere erotico nel 1887, e il Barone Augusto d’Alber Glanstatten, il quale nel 1903 donò un sarcofago in pietra bianca.
Altri, invece, sono cittadini comuni che amavano la loro città. Vale la pena di ricordare i ripetuti doni (nel 1908 e nel 1913) di Renato Caroli, accompagnati sempre dalle sue lettere in cui – cosa rara all’epoca – descrive i contesti di ritrovamento dei reperti; il consistente legato testamentario di Vittorio e GiuseppinaOblasser del 1916, con il quale 209 oggettyi egiziani entrarono a far parte delle collezioni del Museo; ed infine Antonio Meiss, assicuratore che lavorò ad Alessandria d’Egitto e che donò nel 1919 una cassa contenente frammenti di ceramica islamica provenienti dal Cairo.
Ad arricchire la collezione ha contribuito anche il Museo Civico di Storia Naturale di Trieste. Già nel 1874 cvedette alcuni dei reperti egizi che possedeva, tra i quali un sarcofago con mummia che l’anno prima era stato donato dai signori Francesco Mell ed Ermenegildo Mazzoli. Due pettorali di mummie umane, mummie di coccodrillo e altri due sarcofagi lignei con mummie (questi ultimi donati il 25 aprile 1867 da tre commercianti greci residenti a Trieste, Ciriaco ed Anastasio Vardacca e Stamati Zizinia) furono concessi invece in deposito permanente al Museo di Storia ed Arte nel 2004, riunendo finalmente in una sola sede le collezioni egittologiche cittadine.
Una storia tutta particolare ha il grande sarcofago in granito rosa che troneggia nella sala principale tra quelle dedicate all’antico Egitto. Noto come “sarcofago Panfili”, è ora a Trieste proprio a causa dell’attività cantieristica della famiglia Panfili. Sembra, infatti, che facesse parte del carico di un brigantino inglese partito da Alessandria, il quale dovette far scalo a Trieste a causa di un’avaria. Il capitano, non potendo pagare la riparazione, lo lasciò in pegno, ma non tornò mai a riscattarlo perchè la nave affondò in seguito nel Mare del Nord. Dal momento che il contratto di pegno aveva validità per cent’anni, la famiglia non potè disporne liberamente fino al 1952, anno in cui donò il sarcofago al Museo, dove fu trasportato dal cortile della casa familiare in via Milano 4. Per completezza, va infine ricordato l’ultimo arrivo in Museo, risalente al 2001: si tratta di una maschera in legno, originariamente parte di un sarcofago, donata dall’architetto Serena Del Ponte.

Autore: Susanna Moser

Fonte: Trieste, Civico Museo di Storia ed Arte. La Collezione Egizia, LuglioEditore, Trieste 2014

Catalogo:
il catalogo generale della COLLEZIONE EGIZIA DEL CIVICO MUSEO DI STORIA ED ARTE DI TRIESTE a cura di Franco Crevatin e Marzia Vidulli Torlo, con testi di Susanna Moser e dei soci della “Casa della Vita”.
L’opera è stata realizzata grazie dalla Società Alder, e a Luciano Luciani e Annamaria Luciani Contento, da sempre vicini ai musei civici.
Il catalogo illustra i materiali egizi del Civico Museo di Storia ed Arte esposti nella sede del Civico Museo di Storia ed Arte – Orto Lapidario in piazza della Cattedrale 1 a San Giusto, insieme alla sfinge del Castello di Miramare, al vaso canopo del Civico Museo Revoltella e ai sarcofagi, pettorali e mummie che il Museo Civico di Storia Naturale ha concesso in deposito permanente al Museo di San Giusto, al fine di riunire in una sola sede l’intera civica collezione egittologica.
Il saggio introduttivo presenta gli intensi rapporti intercorsi tra il porto di Trieste e la terra del Nilo, a partire dal periodo romano e sviluppati poi soprattutto tra XVIII e XIX secolo. Una rotta marittima lungo la quale si mossero capitani e marinai sulle navi, in particolare del Lloyd di navigazione, banchieri, mercanti e imprenditori, consoli e impiegati di consolati e assicurazioni, meccanici e giardinieri, che acquistarono in Egitto grandi e piccoli reperti per portarli nelle loro abitazioni triestine; così quando nel 1873 venne istituito ufficialmente il Museo Civico d’Antichità questi personaggi si fecero donatori dei loro “tesori”, oppure li offrirono in vendita per pochi fiorini. I registri del Museo elencano ordinatamente questi arrivi, che dopo i primi decenni del ‘900 si fanno sempre più rari, e l’ultimo dono di grande mole (sei tonnellate di granito) fu nel 1950 il sarcofago che viene ricordato come Panfili, proprio con il nome della famiglia che lo cedette alle collezioni civiche.
I reperti sono suddivisi in 12 capitoli illustrati da 1.327 fotografie a colori per un totale di 996 pezzi, dei quali sono riportati materiale, misure, numero di inventario, acquisizione (quando documentata), datazione, descrizione, commento critico e bibliografia.
I testi in geroglifico e quello in ieratico sono stati attentamente riletti e vengono trascritti in 553 stringhe di testo in geroglifico seguite dalla traduzione.
Tutti i reperti sono visibili al pubblico nelle sale del Museo, sale che vedono un intenso passaggio di scolari e studenti, ma anche di adulti, accompagnati nel magico mondo della terra dei faraoni da guide didattiche specializzate.
Anche nel catalogo si è voluto accompagnare i dati scientifici, correttamente presentati, con un linguaggio chiaro e divulgativo, soffermandosi a spiegare termini e concetti, soprattutto nelle pagine di copertina che aprono i diversi capitoli, al fine di fornire una semplice chiave di lettura delle schede, sempre accostate dalle immagini e spesso da particolari ingranditi.
I reperti più antichi sono due stele funerarie incise e figurate che risalgono alla XII-XIII dinastia (XVIII secolo a.C.); quattro fantastici fogli di papiro perfettamente conservati e ricchi di figure dipinte sono databili al XV secolo a.C.; il sarcofago Panfili in granito rosa di Assuan è appartenuto a un tesoriere del faraone della XIX dinastia (XIII-XII secolo a.C.). Tre sono i sarcofagi in legno stuccato e dipinto appartenuti alla classe sacerdotale, a due uomini e una donna vissuti tra XXI e XXII dinastia (XI-VIII secolo a.C.), ma sono di tre tipi diversi. Ospitano tre mummie, di cui una è pertinente e due sono state inserite in epoche successive: di esse nel XII capitolo sono riportate tutte le osservazioni che si sono potute ottenere grazie alla loro analisi Tac eseguita presso l’Ospedale Maggiore di Trieste nel 2004.
Di particolare raffinatezza è la realizzazione della serie completa di quattro vasi canopi in alabastro (VII-VI secolo a.C.). Ricca la serie dei bronzetti raffiguranti divinità e animali sacri, e delle statuine dei servitori dei defunti (176 pezzi) in legno, terracotta e faïence dal Nuovo Regno (XVI secolo a.C.) all’Epoca Tolemaica (IV-I a.C.); tra esse tre in legno provengono dalla tomba del faraone Sethi I (1290-1279 a.C.) dalla Valle dei Re. Seguono i multiformi amuleti (530 pezzi e 23 stampi) tra i quali primeggiano gli scarabei (146 pezzi) con il dorso raffigurante il coleottero, simbolo egizio del sole, e dotati di iscrizioni geroglifiche incise nella base.
Concludono il percorso nella lunga storia del Nilo i materiali del periodo greco-romano e di quello copto per finire con un nucleo di ceramiche islamiche (integre e frammentarie) raccolte da un concittadino al Cairo e composto da esemplari che offrono un panorama piuttosto vasto della produzione dell’Egitto e della Siria tra X e XVI secolo, oltre ad includere pochi ma significativi oggetti di importazione anche dalla Cina.

Vedi in allegato Estratto-COLLEZIONE_EGIZIA

Canopi e ushabti dall’antico Egitto

Sin dalla sua fondazione, nel 1874, il Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste ha riunito una grande collezione di reperti archeologici – oltre mille – provenienti dall’antico Egitto, collocandosi tra le prime raccolte in Italia dopo quelle di Torino, Firenze, Napoli e Bologna.
Una recente campagna di catalogazione ha permesso di acquisire nella banca-dati SIRPAC un nucleo consistente e rappresentativo di questa collezione, composto da 170 ushabti e da una serie completa di quattro vasi canopi.
Gli ushabti sono statuine che facevano parte del corredo funerario degli antichi Egizi. Realizzati in materiali diversi (ad esempio, legno, terracotta, faïence e bronzo), hanno dimensioni che variano dai pochi centimetri fino a quasi mezzo metro di altezza.
Il loro uso fu introdotto alla fine del Medio Regno (all’incirca nella prima metà del II millennio a.C.), allo scopo di servire il defunto durante la sua vita nell’aldilà, e proseguì per tutto il resto dell’epoca faraonica, fino all’Epoca Tolemaica (quindi, almeno fino al I secolo a.C.) con un leggero mutamento di significato: gli ushabti diventano, infatti, dei veri e propri sostituti del defunto, grazie all’elaborazione della formula che spesso vi compare iscritta, vale a dire il capitolo 6 del Libro dei Morti.
Questa formula magica serviva a “risvegliare” la statuina e a far sì che essa si recasse a lavorare al posto del suo proprietario (il cui nome doveva essere iscritto assieme alla formula). Gli antichi Egizi credevano, infatti, che nei “Campi di Iaru” (il paradiso), tutti – dal faraone all’ultimo dei servi – avrebbero dovuto lavorare nei campi, e possedere degli ushabti era un modo per evitarlo.
Le caratteristiche di queste statuine cambiano nel tempo: i primi esemplari, spesso singoli, sono di grandi dimensioni e scolpiti in legno e poi dipinti, quasi come delle statue vere e proprie. Con il Nuovo Regno (1543-1078 a.C.) le dimensioni si riducono a circa 20-25 cm e l’accuratezza dei dettagli non è sempre garantita; inoltre, l’iscrizione che li accompagnava poteva limitarsi al nome, al matronimico e ai titoli del defunto. Il loro numero sale gradualmente fino a 401 esemplari: uno per ogni giorno dell’anno (che nell’antico Egitto era di 365 giorni) più 36 capisquadra (un caposquadra ogni 10 ushabti).
A partire dalla XXI dinastia (1078-945 a.C.), gli ushabti sono alti 10-15 cm e sono quasi esclusivamente prodotti in faïence; durante l’Epoca Tarda (dal 672 al 332 a.C.) le dimensioni si riducono ulteriormente e la qualità può variare moltissimo: esistono esemplari con un’eccezionale qualità di esecuzione dei dettagli, risalenti alla XXVI dinastia (664-525 a.C.), e ushabti molto semplificati e in argilla cruda.

I vasi canopi facevano parte del corredo funerario antico-egiziano, in serie di quattro, sin dall’Antico Regno (metà III millennio a.C.) e servivano per contenere i visceri imbalsamati del defunto (polmoni, fegato, stomaco ed intestini).
L’evoluzione della forma del vaso, nonostante il lunghissimo periodo in cui furono in uso (circa due millenni), non è particolarmente significativa, soprattutto in considerazione dell’esistenza contemporanea di varianti locali, mentre quella dei coperchi offre un inquadramento più preciso: fino alla fine del Medio Regno essi erano costituiti da semplici ciotole rovesciate, per poi passare a raffigurare il defunto fino a tutta la XVIII dinastia (notissimi sono i vasi canopi del faraone Tutankhamon, appartenenti a questo tipo e in finissimo alabastro).
Con la XIX dinastia (1292-1186 a.C.) i coperchi si differenziano, fino ad arrivare alla canonica raffigurazione dei geni funerari chiamati “Figli di Horo”, protettori dei punti cardinali. Si tratta del babbuino Hapi, dello sciacallo Duamutef, del falco Qebehsenuf e dell’uomo Amseti. Anche la formula magica con cui ciascun vaso è iscritto cambia di conseguenza: il contenuto di ciascun vaso è ora associato ed identificato con il genio funerario corrispondente, e su di esso è invocata la protezione di alcune divinità femminili (Iside, Nefti, Selkis e Neith). Il materiale più comune è l’alabastro egiziano, una forma di calcite, ma se ne conoscono anche in terracotta (specialmente gli esemplari più antichi) e in calcare.

Se gli ushabti del Museo civico di Storia e Arte di Trieste abbracciano tutta l’evoluzione tipologica dal Nuovo Regno all’Epoca Tolemaica, con esemplari anche di finissima fattura, il set di vasi canopi è precisamente attribuibile alla XXVI dinastia per motivi stilistici, iconografici ed epigrafici, costituendo uno tra gli esempi più raffinati conosciuti.

Per approfondire:
Collezione egizia del Civico Museo di Storia ed arte di Trieste, a cura di F. CREVATIN, M. VIDULLI TORLO, Trieste 2013.

Fonte: http://www.ipac.regione.fvg.it

Della collezione, vengono presentate un certo numero di immagini dei reperti descritti, vedi >>>

Info:
Museo di Storia ed Arte – Orto Lapidario – Piazza della Cattedrale, 1 – Trieste
Autobus n. 24, da lunedì 10 aprile a domenica 8 ottobre 2017: da martedì a sabato 10-13 / 16-19, domenica 10-19, lunedì chiuso;
da lunedì 9 ottobre 2017 al 31 marzo 2018: da martedì a sabato 9-13, domenica 10-17, lunedì chiuso.
Giornate di chiusura: 1 gennaio, 25 dicembre
tel. 040 310500 / 040 308686 – fax 040 300687 – e-mail: cmsa@comune.trieste.it
Entrata libera – Visite guidate: rivolgersi al Servizio Didattico
Url: www.museostoriaeartetrieste.it

Periodo Storico: Protostoria
Localizzazione Geografica
Visualizzazione delle schede relative a contesti archeologici visibili nell'arco di 5 km dalla località di partenza